Gli uomini dell’equipaggio, abituati com’erano a quello spettacolo, ci chiesero se avevamo bisogno di qualcosa, ma alla nostra risposta negativa scesero sotto coperta senza che i bagliori che illuminavano l’aria a giorno o le esplosioni che le facevano vibrare riuscissero a distrarli dal proprio sonno. Rimanemmo sul ponte fino alle due del mattino fino a che stremati dalla fatica e dal sonno, ci decidemmo ad andare in cabina. Quanto a Milord nulla riuscì ad indurlo a fare altrettanto e rimase tutta la notte sul ponte della barca a vela a ringhiare ed abbaiare contro la voce tumultuosa del vulcano. La notte restante passo lenta, lo scafo dell’imbarcazione rollava al passare delle tonnare che all’alba si avviavano verso la giornata consueta di pesca. L’indomani ci svegliammo non appena la barca a vela iniziò a muoversi: alla luce del giorno la montagna aveva perso parte della sua fantasmagoria, ma la maschera che portava di giorno e che riusciva a distoglierti dalle sensazione notturne era tutt’altro che dimessa. L’imponenza era la stessa. Si udivamo sempre le esplosioni, ma la fiamma non era più visibile e quella lava, ruscello incandescente di notte, di giorno si confondeva con quella cenere rossastra sulla quale scorreva. Dieci minuti dopo eravamo nuovamente davanti al porto e questa volta non ci fecero alcuna difficoltà per entrare. Pietro e Giovanni scesero con noi e ci fecero presente che volevano accompagnarci nella nostra ascensione. Entrammo non in un albergo poichè a Stromboli ed in gran parte delle isole eolie tutte non ne esistono, ma in una casa i cui proprietari erano lontani parenti del nostro capitano. Non essendo prudente e neanche salutare metterci in cammino a stomaco vuoto, Giovanni chiese ai nostri ospiti il permesso di fare colazione da loro, mentre Pietro andava a cercare delle guide. Non solo accettarono la proposta con la stessa cortesia che caratterizza gli isolani, ma ancora meglio il padrone di casa uscì ed entrò un attimo dopo con la più bella uva ed i più squisiti fichi d’india che avremmo mai potuto mangiare.
Appena finimmo la nostra colazione, Pietro arrivò con due strombolani che per mezza piastra ciascuno, si erano offerti di farci da guide. Erano poco più delle otto del mattino e ci mettemmo subito in marcia per evitare di compiere l’ascensione durante le ore più calde. La vetta imponente dello Stromboli si trovava più o meno a mille, millecinquecento piedi sul livello del mare, ma la sua pendenza è talmente erta che non si può evitare di compiere la salita senza deviazioni e pertanto dovemmo continuamente zizzagare. Da principio, all’uscita del borgo marinaro, il sentiero si presentava agevole; saliva in mezzo a delle vigne cariche di uva che costituisce a quanto capimmo il principale commercio dell’isola e dalle quali i grappoli pendevano in abbondanza tale che ognuno ne prendeva a piacimento senza doverne chiedere il permesso al proprietario. Ma una volta superati i vigneti non trovammo più nessun sentiero e dovemmo avventurarci cercando il passaggio migliore per risalire e le chine per noi meno scoscese. Malgrado tutte queste precauzioni ci fu un momento in cui dovemmo salire a carponi e la cosa non fu facile tale che pensammo anche di dover desistere dall’impresa. Ma salire non era niente giacchè superato quel punto riconosco che non appena mi rigirai e lo vidi inclinato quasi a picco sul mare chiese pieno di terrore come avremmo fatto per scendere. Le nostre guide ci dissero però che la discesa l’avremmo effettuata da un altro sentiero e ciò mi tranquillizzò un po’.Coloro che, come me, sfortunatamente soffrono di vertigini non appena vedono il vuoto sotto i loro piedi, mi potranno capire ma soprattutto comprenderanno l’importanza che io attribuivo al problema della discesa. Superato quel dirupo per circa un quarto d’ora la salita divenne più agevole; ben presto però arrivammo ad u punto in cui la salita parve insormontabile. Era una cresta perfettamente aguzza che formava l’orifizio del primo vulcano e che da un lato si stagliava a picco dal cratere e dall’altro scendeva al mare con una china talmente erta che, da una parte mi sembrava di dover precipitare, e dall’altra di dover rotolare giù dall’alto in basso. Lo stesso Jadin che solitamente si arrampicava in ogni dove come un camoscio senza mai preoccuparsi delle asperità del terreno arrivò in quel punto e si fermò di botto guardandomi come a chiedermi se fosse possibile evitarlo. Come avevamo ben immaginato era impossibile.
Dovemmo rassegnarci. Per fortuna il pendio di cui dicevo era composto da cenere nella quale ci si sprofondava fino alle ginocchia e che, nonostante fosse friabile, opponeva una certa resistenza. Iniziammo ad avventurarci su per quel percorso ove un equilibrista avrebbe senz’altro chiesto il suo bilanciere, ma con l’aiuto dei nostri marinai e delle guide riuscimmo a superarlo senza incidenti. Voltandoci indietro vedemmo Milord che se ne stava dall’altra parte non per vertigini ne per il timore di cadere in mare o nel vulcano ma perchè aveva messo una zampa nella cenere per lui troppo calda e ci pensò due volte prima di procedere. Ma quando ci vide andare avanti si fece coraggio come noi, attraversò quel punto al galoppo e ci raggiunse visibilmente agitato per ciò che gli sarebbe successo in seguito. Almeno per il momento le cose andarono meglio di come pensassimo; non dovemmo fare altro che scendere per un pendio assai dolce e così nel giro di dieci minuti arrivammo ad una piana che domina il vero cratere del vulcano e le isole eolie tutte dall’alto della sua maestosa cima. Giunti a questo punto assistemmo a tutte le sue evoluzioni a anche se lo avesse voluto a quel punto non avrebbe avuto nessun segreto per noi. Il cratere dello Stromboli ha la forma di un grosso imbuto in fondo ed in mezzo al quale c’è un orifizio attraverso cui un uomo entrerebbe a malapena e che comunica con il camino interno del vulcano.
E’ questa fenditura che simile alla bocca di un cannone lancia una pioggia di proiettili che ricadendo nel cratere trasportano con sé pietre cenere e lava che ostruiscono questa specie di imbuto. Il vulcano sembra allora raccogliere le forze per alcuni minuti, compresso com’è dalla chiusura della sua valvola; ma nel giro di un attimo la sua fumata trepida come se fosse ansimante e si de scorrere nei fianchi incavati della montagna un sordo boato. Infine la cannonata esplode di nuovo, scagliando a duecento piedi sopra la vetta più elevata i nuovi sassi e la nuova lava che, ricadendo e ricostituendo la bocca del condotto eruttivo, prepareranno una nuova eruzione [to be continued ]